Non so se nell’era digitale riusciamo ancora a immaginare la faccia di uno stampatore newyorchese, nel 1954, alla richiesta di un ragazzino che entra nel negozio, segna tra i provini un particolare minuscolo di un fotogramma 24X36, già sottoesposto e sgranato, e chiede di farne una stampa 30X40.
William Klein era tornato nella sua città natale, dove era cresciuto in una famiglia messa sul lastrico dalla crisi del ’29, ebreo in un quartiere di irlandesi, bambino di 12 anni che aveva eletto come sua seconda casa il MOMA, così lontana dall’antisemitismo che appestava le strade, evidentemente non solo a Berlino. A 25 anni aveva visto l’Europa come soldato in guerra, si era stabilito a Parigi per studiare alla Sorbonne, aveva conquistato le simpatie di Fernand Léger che lo spronava a praticare in strada l’arte anti-borghese, si era sposato una francese, aveva esposto a Milano, collaborava con Mangiarotti, che lo presentò al Gio Ponti tornato a dirigere Domus, che ne apprezzò i lavori grafici e i murales influenzati dalla Bauhaus (e soprattutto da Max Bill) e lo invitò spesso a lavorare per la rivista. E soprattutto aveva conosciuto Alexander Liberman, pittore astratto al quale era stata affidata la direzione artistica di Vogue, che lo invitò a New York con un contratto da fotografo di moda e la promessa di finanziargli tramite Condé Nast “qualunque cosa vorrai fare”.
A venticinque anni, senza nessuna esperienza di fotografia, era pronto ad affrontare il ritorno nella sua città così amata e così odiata. Scelse, come ebbe modo di dire, l’alzo zero: un’immersione totale nella calca dove si muoveva con il suo grandangolo a 360 gradi, come se qualunque cosa gli girasse attorno fosse identica e degna di un’immagine, come un uomo che sceso per primo sulla luna non sappia dove inquadrare, come un esploratore in mezzo ad una tribù Zulu. Cominciò ad impaginare lui stesso il suo straordinario lavoro affollando le pagine di foto, una dietro l’altra, senza respiro, particolari ingranditi e sgranati all’inverosimile in doppia pagina, vecchi, scritte, bambini, pistole, negozi, asfalto, cortine, sudore, folle, vicoli, poliziotti, giostre, grattacieli, italiani, seven-up e gransignori. Tutto in fila, tutto senza nobiltà, tutto così violentemente vero e umanamente assurdo.
Quando i piani alti di Condé Nast videro le bozze non bastò il carisma di Liberman per placare il loro scandalo e per far pubblicare il libro. “Volgare, aggressivo, incompetente”.
No way in America.
Poco male. Klein se ne tornò a Parigi dove pubblicò il libro, accolto subito con entusiasmo e curiosità per quel modo nuovo di fare giornalismo e per quella visione di una città così densa da sembrare un deserto. Vinse il Prix Nadar e si mise subito al lavoro per nuovi progetti. Seguirono quindi i libri-diari “Roma”, “Mosca” e “Tokyo”.
Con l’edizione francese di Vogue collaborò saltuariamente, sperimentando ogni volta una nuova via per la fotografia di moda (grandangoli deformanti, pose lunghe, contrasti spiazzanti, elementi di disturbo, doppie esposizioni con flash…) e inaugurando un genere che produrrà le cose migliori sulle pagine patinate: il fotografo di moda a cui non frega una cippa della moda.
Del resto il suo grandangolo, la sua visione iperrealista, eccentrica, sembravano fatti apposta per la moda che in quegli anni di smilza androginia, di optical, di trasgressione, di giovanile entusiasmo, di liberazione sessuale, stava rimescolando i paradigmi sociali.
Dalla fine degli anni ’50 cominciò a produrre documentari filmati, allontanandosi dalla fotografia per più di venti anni. Di questo periodo, oltre all’immortale, caustico Mr. Freedom (Delphine Seyrig, Donald Pleasence, Serge Gainsbourg, Philippe Noiret, il leader sessantottino Cohn Bendit, Yves Montand e Simone Signoret tra gli altri) in cui sbeffeggia l’America imperialista e ipervitaminizzata dei tempi, non si può non ricordare Who are you Polly Maggoo? e Muhammad Alì the greatest. Realizzò poi lavori in cui mescolava pittura, fotografia e cinematografia, fino al suo ritorno alle origini fotografiche negli anni ’80, senza però raggiungere i risultati dirompenti dei primi anni. A partire dagli anni novanta si dedica saltuariamente ai suoi progetti foto-video-pittorici e sempre più spesso a presenziare mostre e a ritirare i molteplici tributi e premi che puntalmente gli assegnano in tutto il mondo.
Talvolta addirittura in America.
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William Klein – AlberoandronicoAuthor
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