– Non lo puoi fare tu da sola?
– Ho una cameriera che lo fa per me
– Allora allaccerai le mie
Casa Seybert, Vienna. Due bambine, Trude Schönberg e Lisette (Elise Amelie Felicie) Seybert, discutono di vita, di educazione e di lacci delle scarpe nel monumentale palazzo della famiglia Stern, che pochi anni prima aveva preso il cognome Seybert per evitare di esporre troppo un cognome dichiaratamente ebraico. Erano i primi del Novecento, ma l’aria che tirava era già quella. Il padre di Lisette era un facoltoso medico, veneto dal ramo materno, con proprietà milionarie a Venezia e moglie cattolica francese con la passione per la poesia e le arti; il padre di Trude, magari l’avete già indovinato, era Arnold Schönberg.
Trude mi insegnò ad essere più indipendente
(Lisette Model)
Lisette passò molto tempo della sua giovinezza con la sua amica Trude, nella casa del compositore che di certo non poteva competere con la sua. Forse si sentiva meno trascurata o addirittura, stando ad alcuni biografi, insidiata.
E poi Arnold le insegnava a conoscere la musica, portava le bambine ai concerti e soprattutto considerava la giovane Lisette eccezionalmente dotata di senso musicale. E lei vedeva per la prima volta un uomo, un artista, lottare senza compromessi per il proprio lavoro e la propria libertà.
Evsa aveva talento per il colore, ma non aveva grinta
(Sidney Yanis)Povero Evsa, non guadagnò mai un dollaro
(Lisette Model)Era l’unico che capiva veramente il mio lavoro
(Lisette Model)
Alla morte prematura del padre, nel 1924, Lisette si trasferì a Parigi, dove studiò canto, andò in analisi e sposò un giovane pittore russo di Montparnasse, Evsa Model.
I due non si separarono mai: Lisette parlava, parlava, monologhi rabbiosi, bizzarri e brillanti, Evsa ascoltava mentre dipingeva.
Si adoravano.
Mi colmarono di lodi sulla base di qualche rullino, subito subito su un piedistallo. Solo in America…
(Lisette Model)
A Parigi provò con la pittura. Iniziò così a seguire, con la sorella Olga, le lezioni di Andre Lhote, ma la rapida decadenza delle fortune di famiglia le suggerirono di trovare al più presto una fonte di sussistenza sicura. Si convinse a imparare a lavorare in una camera oscura.
Dalla moglie di Kertesz apprese i primi rudimenti sull’uso della Rolleiflex appena acquistata. Cominciò a mirare verso i soggetti che la colpivano in strada, attirata da una certa grottesca mollezza che si respirava in una Francia ormai lontana dal fermento culturale dei decenni passati. Naturalmente portò la biottica con sé anche a Nizza, in visita alla madre che nel frattempo si era trasferita lì.
Sulla Promenade des Anglais dei soggetti che cercava ce n’erano quanti ne voleva.
La cosa più rischiosa che può accadere a un artista: fare di un principiante una stella, per qualcosa che neanche io sapevo esattamente come avevo fatto
(Lisette Model)
Lisette e Evsa decisero di raggiungere la sorella di lui a New York. Ralph Ingersoll, direttore di PM, un giornale “comunista” molto seguito dagli intellettuali newyorkesi, vide le foto di Lisette e volle immediatamente pubblicarle in un articolo dal titolo Perché è caduta la Francia. Le immagini, ritagliate brutalmente intorno ai soggetti, come a volerli ingigantire nella loro oziosa figura, sembravano narrare e sviluppare la tesi dell’articolo infinitamente di più del corsivo.
Furono un successo strepitoso.
Cominciò subito a lavorare, trovandosi al fianco dei più celebrati fotografi sulla scena. Già nel 1940 si ritrovò al MOMA con gente come Berenice Abbott, Man Ray, Ansel Adams.
Un giorno Weston le chiese come riusciva a ottenere quella particolare grana sulle stampe. Lei, che aveva spesso fatto sviluppare le pellicole dal drugstore vicino casa, rispose: “Odio le stampe troppo belle”.
Quando punto l’obiettivo su qualcosa è come se ponessi una domanda. La fotografia, talvolta, è la risposta. In altre parole, non sto cercando di dimostrare niente
(Lisette Model)
Iniziò a collaborare per Harper’s Bazaar di Brodovitch: ritratti, Jazz, Manhattan, vita notturna (imparò velocemente l’uso del flash) e, più in generale, l’energia “eccitante e terrificante” che scorreva allora nelle vie di New York, magistralmente impaginata dall’art director russo che la direttrice Carmel Snow aveva voluto “per incontrare il gusto europeo”. “Running Legs” e “Reflections” furono il risultato del sodalizio con la rivista, mentre pubblicava su riviste come Look le sue serie sugli immigrati; nel Lower East Side e nei locali notturni di Bowery; a Coney Island.
Fu accettata da subito nella Photo League, cooperativa di fotografi più tardi inquisita da McCarthy per “simpatie comuniste”, mentre il settimanale Aperture, quello di Minor White, di Ansel Adams, dei Beaumont, di Nancy Newhall e di Dorothea Lange, le dedicò un lungo articolo, scegliendo per la copertina la bagnante di Coney Island che diventerà una delle sue foto più emblematiche.
La fotografia è l’arte della frazione di secondo
(Lisette Model)
Negli anni Cinquanta Lisette teneva corsi alla New School for Social Research di New York e al San Francisco Institute of Fine Arts, tenendo conversazioni formidabili. E, tra la New York di Brodovitch, di Robert Frank, di Walker Evans e la San Francisco di Dorothea Lange e Imogene Cunningham, continuò a produrre lavori di grande effetto, con quel suo aristocratico distacco (“La fotografia è una conversazione muta”) che si traduceva in inquadrature incombenti, pesanti, totali; soggetti ingigantiti a raccontare un orrore dei sensi al quale lei per prima non si sottraeva.
Model spesso descriveva i suoi soggetti preferiti come “molto magri o molto grassi”, “molto poveri o molto ricchi”, “estremi”, “esagerazioni”, e li stampava grandi quaranta per cinquanta: li voleva eroici, grandiosi, soli. Sapeva che nella completa solitudine dell’umanità si possono riflettere gli aspetti essenziali della vita e della società.
Non scattare fino a che il soggetto non ti colpisce nella bocca dello stomaco
(Lisette Model)
Nonostante le mostre e le conferenze al MOMA diretto da Steichen, l’insegnamento e le pubblicazioni sulle più prestigiose riviste di fotografia come la svizzera Camera, Lisette si ritrovò quasi sul lastrico.
Il maccartismo (fu tra gli artisti “interrogati”) non l’aveva risparmiata, e i lavori ben pagati cominciavano a girare alla larga da lei. Qualche volta esponeva e vendeva al Limelight, il bistrot al Village di Helen Gee dove servivano un’eccellente pasticceria che a metà degli anni Cinquanta divenne la prima galleria in America dedicata esclusivamente alla fotografia (hanno esposto, tra i molti, Strand, Adams, Capa, Weston, Stern, Faurer, Erwitt, Frank, Parks e Cartier-Bresson), ma una buona vendita si aggirava intorno ai venticinque/trenta dollari a foto.
Lisette decise di incontrare negli uffici di Bazaar la direttrice Carmel Snow per parlarle di un progetto che aveva in mente.
La fotografia ha ampliato la nostra capacità visiva, ma in forme che non siamo ancora in grado di capire
(Lisette Model)
Aveva in mente un libro sul Jazz, con testi di Rudi Blesh (il critico musicale dell’Herald Tibune e del famoso programma radio This is Jazz) e del poeta nero Langston Hughes. Snow ne fu entusiasta e propose un incontro con il figlio di Helena Rubinstein, Roy Titus, che si mostrò da subito interessato a finanziarla. Per mesi non seppe più nulla, fino a che non decise di telefonare a Roy, che la invitò a casa Rubinstein.
“Mi mostrò una lettera di Carmel Snow in cui sconsigliava di aiutare questi inaffidabili comunisti intriganti. Qualche tempo dopo, al MOMA, mi ritrovai la signora Snow che gridandomi “Model!” mi buttava le braccia al collo. La scostai così violentemente da buttarla contro il muro. “Non parli con me!”, le dissi, e con che voce! Louis Dahl-Wolfe mi chiese “Perché sei stata così crudele?”. Glielo spiegai e a quel punto Brodovitch disse “Tutto qui?”. Ma lui, che era un uomo annoiato e cinico, viveva dalla mattina alla sera in un ambiente anche peggiore”.
Accettava Diane così com’era, senza giudicarla. Tutti i grandi maestri sono così: ti guardano e capiscono che stai cercando qualcosa
(Alex Eliot)
L’America del dopoguerra stava perdendo la sua verginità, e Lisette, amareggiata, continuò ancora per un po’ a fotografare ma smise di esporre e di farsi vedere in giro, creandosi la fama della “Greta Garbo della fotografia”.
Viveva molto modestamente al Greenwich con il marito che parlava raramente e dipingeva scene di strada, e continuava a insegnare alla New School. Spiegava come gestire la sottrazione della terza dimensione, come rapportarsi con i soggetti, come risolvere gli aspetti tecnici. Parlava molto di tecnica e dell’importanza della luce, ma alla fine, diceva, dovete dimenticarla: la fotografia è come la pittura, è nella vostra testa, “il soggetto siete voi e l’oggetto è la vita”.
Fu allora che, scontenta del corso di Brodovitch, cominciò a chiamarla una giovane fotografa che meditava di lasciare al marito/socio Allan l’intera gestione del loro studio di fotografia pubblicitaria. Si chiamava Diane Arbus, e alla loro prima lunga passeggiata le confessò: “Voglio fotografare il male”.
Ma qui comincia un’altra storia.