Che cosa si regala a un bambino per il suo compleanno?
Quando è nell’età della bicicletta, degli schettini, delle costruzioni, del pallone, ma forse quello è per sempre… Ad Andrea Pizzi, alunno di terza elementare alla Giambattista Vico di Roma, arrivò in dono una macchina fotografica. Come il testimone di un vizio di famiglia che ritorna una generazione dopo l’altra, perché il nonno era un appassionato che nemmeno la guerra riuscì a piegare, e per la sua inseparabile Leica costruiva da solo gli obbiettivi, mentre il padre si stampava le foto in casa, trafficando con le bacinelle in camera oscura.
Incauti, gli uomini di famiglia decisero di affidargli una Voigtländer, e la vita di questo ragazzino curioso, dagli occhi scuri, si è messa a scorrere più veloce, a un ritmo accelerato, sempre in compagnia di questo strumento che non è innocuo, non è leggero, non è privo di conseguenze per chi lo usa quasi fosse il prolungamento del proprio sguardo.
Nel rapporto per nulla pacifico tra la realtà fisica e la sua rappresentazione attraverso la luce, l’obbiettivo coglie l’essenza delle cose, la verità delle persone, alle quali forse ruba l’anima, come sostengono gli indigeni che non vogliono farsi fotografare.
Basta guardare le immagini di questo libro: il parrucchiere che porta in testa il toupet appena sistemato per la modella, con la stessa quieta soddisfazione di una signora sotto il casco. L’uomo con il volto lungo e snodato da equino che fu protagonista di una campagna per le Agenzie Ippiche. Quei ragazzi scelti per le strade di Alghero, a torso nudo, occhi e volti remoti come se arrivassero da un altro mondo, facce da hidalgo, colori aragonesi.
La modella con il fastoso abito di Gai Mattiolo seduta come una bambola di pezza, il volto che sta svanendo e quei sandali crudeli in primo piano, il tacco simile a uno stiletto. Ogni retorica della moda superando d’istinto, Andrea coglie nelle modelle, in questa specie di gazzelle che saranno famose, il segno dell’imperfezione: braccia troppo lunghe, volti troppo appuntiti, ombre di stanchezza.
È un indizio di buona salute, questo.
È l’ottimismo di chi, sapendo che l’invidia degli dei è sempre in agguato, li distrae ricordando l’umanità del non perfetto. Proprio come le tessitrici indiane hanno cura di commettere un piccolo errore prima di finire un tappeto, per evitare che la dea della tessitura resti imprigionata nella trama.
In questa realtà risignificata, gli oggetti hanno un linguaggio vivo, intenso: la tazzina da caffè semivuota (ma nobile: appartiene al Gambrinus di Napoli) si sente simile al vestito indossato da Violeta Sanchez. Le mura di Villa Medici diventano lo sfondo di uno scialle che vola leggero ricordando Balthus. Il tubetto strizzato e consumato è eloquente come un relitto. E la fila di polli laccati fotografata a Soho racconta la crudeltà quotidiana, la piccola violenza di ogni giorno.
Ma c’è un volto che appare sullo sfondo, una ragazza bianca come in un kabuki, imprevista, astratta. Che cosa fa in una rosticceria?
Nel brusìo talvolta pesante delle cose, come ci dice Andrea Pizzi, è questo guizzo di ironia a ridare loro leggerezza, questo umorismo che gli balena negli occhi e nell’obbiettivo.
Giusi Ferrè
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Saatchi&Saatchi, J.Walter Thompson, Mc Cann Ericksson Amsterdam, Publicis FCB-Mac, XYZ, Emmer Group, STZ, Giorgio Domenici De Luca, Reggio del Bravo.
Andrea Pizzi 161 PIX, dal 14 al 18 luglio (replicata dal 10 al 15 settembre) 1997. Roma, lungo la Via Borgognona da Via Bocca di Leone a Piazza di Spagna. Con il Patrocinio del Comune di Roma e dell’Assessorato alle Politiche Culturali.
161 PIX, 1997 , Leonardo Arte (Monadadori), Vincitore graphic design e art direction editoriale in LAPIS AWARD 1998 (ADCI ITALIA) e finalista EPICA CANNES 1998 (ADCE EUROPA).
FRONT, 2001, finalista graphic design in LAPIS AWARD 2001 (ADCI ITALIA).
Finalista più volte nelle competizioni annuali indette da:
Art Director’s Club (Italia), Epica (Europa), Archive (Germania), Academy Award (USA), Clio (USA), Fininvest (Italia, Premio Pubblicità per bene).