A Roma, quando dici Rebibbia, la gente pensa a quella cittadella di edifici circondariali e di reclusione che oggi interseca, dove l’Aniene si arriccia stizzito come a voler ritardare la sua fine nel Tevere, tre degli aspetti storici ed essenziali della città: la periferia dei palazzoni, i casermoni, ovvero l’edilizia popolare che dagli anni Sessanta è in cerca di landmark che costituiscano un compromesso architettonico con le economie di scala richieste dal gigantesco sviluppo demografico del dopoguerra, la borgata via via ridisegnata da piccole abitazioni abusive, generalmente autocostruite pensando anche ai figli da sposare, e la città/paese rurale, contadina, tuttora presente in molte aree della fascia periferica romana e fino a pochi anni fa tipica anche di zone tutt’altro che lontane dal centro storico.
Rebibbia è stretta tra la Montesacro dei Talenti, fino agli anni Sessanta area adibita a pascolo dell’azienda agricola della famiglia, oggi zona borghese che lascia sorvegliare il confine con le carceri a un agglomerato anonimo di alti edifici popolari dove la toponomastica è dedicata ai grandi filosofi; San Basilio, una specie di museo dell’edilizia di periferia dagli anni Trenta ai giorni nostri; Tor Cervara, forse il quartiere più “contadino” di tutti; e Pietralata, dove il fascismo proponeva agli sfollati della vecchia Roma immolati alla grandezza e alla gloria del duce le famose case a sette lire, prive di cucina e persino di acqua corrente (in compenso interessate di frequente dagli allagamenti causati dall’Aniene che scorreva selvatico e da un piano stradale depresso che raccoglieva inesorabilmente le acque sversate).