








I cinesi sono sistemici, ovvero adottano la cognizione della causalità sistemica, piuttosto che pensare alla collettività come ad una sommatoria di responsabilità (e interessi) individuali. Il comunismo cinese ha avuto una parabola distante dai comunismi europei perché passa attraverso il confucianesimo, secondo cui lo sviluppo di una persona si realizza nell’armonia con la natura. Noi guardiamo con scetticismo alla loro società perché la nostra è permeata dal principio di causalità diretta, e dai valori morali ed economici che ne conseguono: un individuo è responsabile delle proprie azioni perché ha il controllo sulle loro conseguenze.
Quindi un sistema dove il bene comune è la somma degli interessi individuali ci sembra l’unico possibile. Anzi, di più: ci sembra l’unico dove l’essere umano si possa esprimere e realizzare. Recenti studi hanno rilevato la presenza di un’intelligenza sistemica per esempio nelle formiche, dove il traffico intensissimo presente appena fuori un formicaio è regolato perfettamente dalla capacità che ogni individuo possiede di agire per il bene comune piuttosto che per il vantaggio personale derivato dal passare prima degli altri. Questa intelligenza genera la possibilità per tutti di viaggiare ad una velocità accettabile, anche se siamo sul raccordo anulare all’ora di punta e senza municipale a dirigerci.
Anche l’intelligenza umana ha queste possibilità, ma questa capacità non è affatto premiata nella nostra cultura di occidentali, anzi spesso viene repressa o sanzionata. Ora però succede che i grandi problemi con cui abbiamo concretamente a che fare derivano da fenomeni di natura sistemica, non interpretabili con la causalità diretta: il riscaldamento globale o il collasso economico globale sono la conseguenza di un sistema di responsabilità e interessi individuali. Non si può chiedere al singolo di mettere mano al problema. Ecco perché da noi tutte le persone con una mentalità conservatrice si rifiutano di considerare quei fenomeni da un punto di vista approfondito.
Perché ogni ipotesi risolutiva di questi problemi implicherebbe una rivoluzione culturale, ovvero uno spostamento di principi fondanti della nostra cultura. Ad esempio il modello dell’attore razionale, che ci hanno insegnato gli economisti o nei corsi di scienze politiche, non tiene conto del rischio sistemico. Ma la natura sistemica della causalità e del rischio in ecologia o in economia ha prodotto delle catastrofi. Quindi dovremmo ricentrarci, bilanciarci, tendere la nostra mente verso culture profondamente diverse da quella che ci sembrava potesse dominare il mondo per sempre: la nostra. E infatti molti da noi hanno cominciato a farlo, magari senza un risultato apparente o razionalmente decifrabile.
L’interesse verso le discipline e le filosofie orientali, o verso la perdita di sistemi sociali e di culture che avrebbero avuto molto da insegnarci (e la comprensione che l’estinzione non derivi da minore evoluzione, da inferiorità, ma bensì da un minore interesse verso quello sviluppo tecnologico che ha contraddistinto la nostra civiltà, e quindi essenzialmente dalla loro impreparazione bellica) è un indicatore da non sottovalutare.
Anche se produce attualmente un approccio scomposto e confuso, un supermarket culturale dove sono allineati sugli scaffali pensieri, religioni e filosofie. La nostra capacità di reagire e di prevenire queste catastrofi imminenti risiede essenzialmente nella possibilità che il pensiero umano generi al più presto un nuovo indirizzo culturale, che l’umanità possa comprendere il suo essere pensante nella sua totalità, nella sintesi di culture, identità, sentimenti e quant’altro siamo in grado di pensare in ogni angolo del pianeta. Altrimenti, tanti saluti.